Ho letto con attenzione e una buona dose di apprensione l’articolo pubblicato da Mattia Marangon su Substack sotto il titolo fin troppo chiaro di: “TikTok è finito nelle mani di Trump”.
Una lettura concisa, ma capace di condensare in poche schermate un tema che, per chi si occupa di digitale, comunicazione e sicurezza, è da molti anni un vero monolite: il potere di un algoritmo di orientare non solo le scelte economiche, ma i pensieri di un’intera generazione.

Marangon racconta con lucidità come, dopo il ritorno di Trump alla Casa Bianca, alla piattaforma sia stato risparmiato il bando imposto dal Congresso americano a patto di diventare una nuova entità a maggioranza statunitense, con Oracle e una cerchia di miliardari conservatori a supervisionarne dati e algoritmi.
Dietro questa manovra, apparentemente tecnica, si nasconde la partita più delicata del nostro tempo: controllare gli algoritmi dei social network per controllare la realtà.
Il software invisibile che decide cosa vediamo
TikTok oggi non è più “l’app dei balletti”. È una piattaforma culturale, economica e cognitiva che nutre la dieta informativa di milioni di persone.
Nei soli Stati Uniti, 170 milioni di utenti: metà della popolazione. Per il 44% dei giovani sotto i trent’anni è la principale fonte di notizie. E quando una piattaforma con questa portata diventa anche un oggetto politico, la sua natura cambia radicalmente.
Gli algoritmi di raccomandazione non sono neutri. Non lo sono mai stati. Decidono cosa vediamo, quando lo vediamo e quanto tempo vi restiamo esposti. È una forma di ingegneria dell’attenzione che, giorno dopo giorno, produce conseguenze culturali e psicologiche difficili da quantificare: polarizzazione, conformismo, dipendenza emotiva, erosione del pensiero critico.
Non serve censurare esplicitamente per condizionare. Basta “premiare” certi contenuti e seppellirne altri.
E quando questo avviene in modo sistemico, sotto il controllo di gruppi economici o politici, si supera la soglia della manipolazione individuale e si entra nel territorio del condizionamento culturale di massa.
Come si costruisce un pensiero eterodiretto
Da anni osservo con profonda inquietudine l’evoluzione del rapporto tra tecnologia e libertà cognitiva. Gli algoritmi di piattaforme come TikTok, YouTube o Instagram apprendono le nostre preferenze per servircene una versione amplificata, più emotiva, più estrema. È così che, senza accorgercene, entriamo in bolle cognitive: ambienti chiusi in cui tutto ciò che vediamo conferma quello che già pensiamo.
Si crea così una generazione di utenti convinti di “scegliere” liberamente, quando in realtà stanno reagendo a stimoli predeterminati, ottimizzati per la permanenza e non per la comprensione.
E quando questi meccanismi vengono orientati politicamente – come rischia di accadere oggi con TikTok – il confine tra informazione e propaganda diventa sottile fino a sparire.
Il risultato? Ragazzi convinti di formarsi un’opinione, mentre in realtà vengono addestrati a reagire.
Un esercito di “analfabeti funzionali digitali”, per dirla brutalmente, che confonde popolarità con verità e algoritmi con neutralità.
La responsabilità degli adulti: educare a pensare
Non posso leggere notizie come questa senza pensare da padre.
Perché non si tratta solo di privacy o di geopolitica, ma del modo in cui i nostri figli imparano a decodificare il mondo.
Noi adulti – genitori, insegnanti, professionisti – abbiamo il dovere di ricordare loro che ogni contenuto che vedono è il prodotto di una scelta algoritmica, e che la libertà di pensiero non è garantita da uno smartphone connesso ma da una mente allenata al dubbio.
“Studiate, ragazzi, spegnete i social e studiate” non è più un consiglio retorico. È una forma di esortazione all’autodifesa culturale.
Perché quando l’educazione cede il passo all’intrattenimento e la conoscenza si riduce a contenuti di trenta secondi, a guidare il pensiero non è più la curiosità, ma il marketing.
Sovranità digitale: un’urgenza europea
C’è un aspetto che come europei dovremmo affrontare con più coraggio: la dipendenza tecnologica.
Oggi le grandi piattaforme che governano la nostra informazione – da Google a Meta, da X a TikTok – sono tutte americane o cinesi.
Ogni volta che una di esse cambia le proprie regole interne, una fetta della società europea ne subisce gli effetti culturali, economici e perfino psicologici.
Non abbiamo più infrastrutture realmente nostre: non server, non algoritmi, non ecosistemi di dati indipendenti.
Eppure, la sovranità digitale non è un tema tecnico: è la nuova frontiera della libertà.
Un continente che rinuncia a gestire i propri flussi informativi non è semplicemente “in ritardo sull’innovazione”. È colonizzato cognitivamente.
L’Europa dovrebbe smettere di limitarsi a regolamentare le piattaforme altrui e iniziare a costruire le proprie.
Piattaforme che rispettino principi di trasparenza algoritmica, tutela dei dati, pluralità dei contenuti e – soprattutto – formazione digitale dei cittadini.
Ripensare la rete: una questione di civiltà
Il problema non è Trump, né la Cina, né l’ennesimo cambio di proprietà di un social.
Il problema è che abbiamo accettato che la nostra percezione della realtà sia mediata da sistemi opachi che non comprendiamo.
E finché non ci riapproprieremo degli strumenti che governano la nostra attenzione, continueremo a confondere libertà con comodità.
Serve una nuova generazione di piattaforme europee, aperte, etiche e non sorrette da modelli pubblicitari basati sulla dipendenza.
Serve una cultura che rimetta la conoscenza, non il consumo, al centro dell’esperienza digitale.
Serve, soprattutto, il coraggio di insegnare ai più giovani che la mente non si “aggiorna” come un’app: si forma, si allena, si protegge.
Quello che sta accadendo con TikTok non è un episodio isolato, ma un segnale d’allarme globale.
Le piattaforme stanno diventando i nuovi Stati, e gli algoritmi le nuove costituzioni.
E se oggi un presidente può “riadattare” un algoritmo per farlo aderire alla propria visione politica, allora la democrazia digitale non è più un diritto acquisito, ma una conquista da difendere ogni giorno.
Per questo continuo a pensare – da tecnico e da padre – che il primo atto di resistenza digitale resti sempre lo stesso:
spegnere il telefono, leggere, studiare, pensare.
Solo così potremo tornare a costruire un futuro in cui la tecnologia serve l’uomo, e non il contrario.

