Questo articolo giace tra le mie bozze, praticamente pronto per essere messo online, da molte, moltissime settimane. Ci ho messo così tanto per decidere di renderlo pubblico perché, da cofondatore di Insegreto – il primo social network anonimo italiano – mi vedo costretto oggi a fare una profonda riflessione su un paradosso che sta attraversando l’intera rete: la libertà come valore fondante di Internet e il suo continuo, sistematico tradimento da parte di chi la usa come pretesto per ferire, offendere, diffamare.
Negli ultimi mesi, due casi clamorosi su questo tema hanno scosso profondamente l’opinione pubblica: parlo del sito web phica.net e della pagina Facebook “Mia Moglie”. Entrambi fortunatamente chiusi, si presentavano in tutto e per tutto come "spazi liberi" in cui potersi esprimere senza alcun filtro né censura.
In realtà, si trattava di vere e proprie discariche digitali costruite sull’abuso dell’anonimato e sulla sistematica violazione della privacy. Due facce della stessa identica distorsione dominante di questi tempi: la libertà senza responsabilità.
L’anonimato come strumento di violenza
Phica nasce inizialmente come forum privato, una sorta di club "esclusivo" dove poter dare sfogo anonimamente a qualsiasi declinazione della sessualità, condividendola poi con gli altri utenti della piattaforma. In realtà, il sito si è trasformato presto in una diabolica macchina digitale, dedita alla diffusione sistematica di immagini intime pubblicate senza alcun consenso da parte dei diretti interessati.
Nel tempo sono stati cambiati i domini (phica.net, poi phica.eu), server e tecnologie, ma la logica è sempre rimasta la stessa: raccogliere, classificare e commentare materiale privato, con tag e thread che indicizzavano i contenuti in modo semiautomatico.
Un archivio di corpi nudi trasformato in terreno di sfogo e disprezzo.
Secondo le cronache, il sito ha ospitato decine di migliaia di utenti registrati e un traffico stimato in centinaia di migliaia di accessi, fino alla chiusura, avvenuta quest'estate (2025) dopo le denunce e l’intervento della Polizia Postale.
Le accuse ipotizzate vanno dal trattamento illecito di dati personali alla diffusione illecita di immagini sessuali (art. 612-ter del codice penale), fino all’estorsione, perché a diverse persone sarebbe stato chiesto denaro per la rimozione dei propri dati o delle proprie foto.
Non c’erano filtri, non c’era informativa sulla privacy, né un riferimento legale o editoriale. Era, a tutti gli effetti, una piattaforma fuori legge – come purtroppo ne esistono ancora tante – che si nutriva dell’impunità apparente garantita dall’anonimato.
La violenza normalizzata nei social
Il secondo caso, ancora più inquietante perché nato su una piattaforma mainstream, è quello della pagina Facebook “Mia Moglie”.
Creata nel 2019 e cresciuta fino a oltre trentamila membri, ospitava foto intime di donne, spesso condivise dai partner stessi, accompagnate da commenti denigratori, sessisti e violenti. Un circo di derisione pubblica in cui il corpo femminile diventava merce da esibire e umiliare.
La chiusura definitiva è arrivata solo pochi mesi fa (2025), dopo migliaia di segnalazioni e grazie all’intervento di attivisti come Carolina Capria, che ha portato il caso all’attenzione dei media e della politica.
Facebook ha rimosso la pagina per violazione delle policy sull’exploitation sessuale, e la Polizia Postale ha acquisito i contenuti a fini investigativi.
Il gruppo però si era già frammentato, riapparendo in copie e canali su Telegram e WhatsApp. È il paradosso del web contemporaneo: chiudere un contenitore non basta, se la cultura dell’abuso resta inalterata.
L’illusione dell’anonimato e il suo prezzo
Phica e “Mia Moglie” dimostrano che il problema non è la tecnologia, ma la sua gestione irresponsabile. L’anonimato non è di per sé un male: è, al contrario, uno strumento potente, che permette di esprimersi senza paura, di tutelare minoranze, di denunciare ingiustizie. Ma quando diventa uno schermo per chi vuole ferire, allora la libertà si trasforma in complicità.
La differenza la fa sempre la struttura che c’è dietro: chi modera, chi conserva i log, chi risponde alle segnalazioni, chi collabora con la legge. Senza questi elementi, non parliamo di libertà, ma di anarchia digitale.
L’esempio di un anonimato legale e sorvegliato
Da oltre dieci anni partecipo attivamente alla gestione di Insegreto, di cui sono anche cofondatore. Per chi non lo conoscesse – perché troppo giovane o troppo vecchio 🙃 – si tratta di un social network che permette agli utenti di condividere confessioni anonime in modo libero ma controllato.
Noi soci, i moderatori e i collaboratori abbiamo sempre creduto che l’anonimato potesse convivere con la legalità e che fosse possibile creare un luogo dove parlare apertamente senza paura né violenza.
Insegreto è anonimo, ma non impunito. Ogni contenuto passa attraverso filtri automatici e moderazione umana, vengono rimossi testi offensivi o violenti, e ogni abuso può essere segnalato.
I log tecnici vengono conservati solo per il tempo necessario a garantire la sicurezza e la collaborazione con le autorità, in conformità al GDPR. Nessuna raccolta di dati superflui, nessuna profilazione, ma un perimetro di tutela chiaro per utenti e gestori.
È la prova concreta che libertà e controllo non sono opposti, ma complementari. Che si può difendere la privacy senza abbandonare la responsabilità.
Come reagire ad un abuso online
Spesso incontro persone e aziende che scoprono troppo tardi di essere finite nel mirino di pagine o siti simili e la reazione è sempre la stessa: rabbia, impotenza, vergogna. Ma ci sono comportamenti e strumenti concreti per reagire, subito, se scopri che una tua immagine o tue informazioni private sono finite in una di queste discariche digitali:
- Non condividere il contenuto o il link che lo mostra.
Anche se il tuo scopo è quello di “smentire” o mostrare l’abuso, non amplificarlo, non condividerlo con nessuno. Ogni click ne aumenta inutilmente la visibilità. - Fai screenshot completi.
Salva l’URL, data e ora precisi e tutte le screenshot del contenuto. Potranno essere usati come prove. - Contatta un esperto di sicurezza digitale.
Un professionista può aiutarti a documentare le prove, a richiedere la rimozione e a intervenire tecnicamente per limitare la diffusione. - Segnala alla Polizia Postale.
Il portale ufficiale è questo:
👮🏻♀️ https://www.commissariatodips.it
Le segnalazioni vengono gestite con grande attenzione, soprattutto in presenza di minori o contenuti diffamatori. - Valuta un’azione legale.
Nei casi di revenge porn, diffamazione o minaccia, la denuncia è la strada più efficace.
La legge è chiara: l’anonimato non protegge dal reato.
La libertà non è un capriccio, ma una responsabilità
Viviamo in un’epoca in cui chiunque può pubblicare qualsiasi cosa. Questa è una conquista, ma anche una condanna se dimentichiamo che ogni libertà richiede un limite, ogni diritto comporta un dovere.
L’anonimato non è il problema. Il problema è l’assenza di etica, la superficialità con cui si confonde “libero” con “lecito”, e “anonimo” con “impunito”. È questa la libertà tradita: quella che rinuncia alla propria dignità in nome dell’istinto e del disprezzo.
Come cittadini, professionisti e comunicatori, abbiamo il dovere di difendere una rete libera ma civile, in cui il rispetto valga più della visibilità e la parola non diventi un’arma.
Perché la rete non è un luogo, è uno specchio: e ogni volta che ci riflette, ci restituisce quello che siamo davvero.
Nessuno merita di essere vittima di una libertà tradita.
