Se frequenti anche solo di sfuggita TikTok, Instagram o YouTube Shorts, ti sarà capitato recentemente di incappare in alcuni strani video apparentemente privi di senso, ma inspiegabilmente magnetici.
Sono video, ad esempio, che mescolano gameplay di Subway Surfers, spezzoni di Family Guy e una voce fuori campo che racconta (male) la storia della Guerra dei Cent’Anni. Il tutto montato a una velocità iperattiva, senza pause, senza respiro.
Benvenuti nel regno del brain rot, letteralmente “marciume cerebrale”. Un’espressione volutamente grottesca, nata dal gergo dei creator per descrivere quel tipo di contenuti pensati non per informare, non per emozionare, ma semplicemente per tenere il cervello agganciato, occupato, distratto. Incollato allo schermo come una falena alla luce di una lampadina.
Come nasce il brain rot?
Il termine comincia a circolare tra il 2022 e il 2023 tra giovani creator anglofoni, quasi come una battuta autoironica per descrivere il binge-watching compulsivo di video sempre più frammentati, sempre più nonsense. Ma dietro la battuta si nasconde una macchina ben oliata: gli algoritmi dei social premiano i contenuti che generano maggiore “retention”, ovvero la capacità di tenere l’utente sulla piattaforma per più tempo.
E cosa funziona meglio di una raffica di stimoli visivi, sonori, narrativi, tutti sovrapposti, senza tregua? Così il brain rot smette di essere una battuta per diventare una strategia di produzione di massa, replicata all’infinito da chiunque voglia surfare l’onda virale.
Perché è diventato virale così in fretta?
Perché funziona. Funziona benissimo.
Il nostro cervello è programmato per reagire agli stimoli nuovi, ai suoni forti, ai colori vivaci. A ogni piccolo picco di novità, si libera un po’ di dopamina, la molecola della ricompensa. E così, video dopo video, scroll dopo scroll, si resta lì, senza accorgersene, a guardare l’ennesimo gameplay con sopra la spiegazione di come funziona il motore a scoppio.
Ma dietro questo meccanismo apparentemente innocuo, si cela qualcosa di più profondo e pericoloso.
La triste verità dietro il brain rot
Il brain rot è il sintomo, non la causa. Il sintomo di una cultura digitale progettata non per educare o per costruire pensiero critico, ma per drenare attenzione. Le piattaforme social non si limitano a ospitare i contenuti: li selezionano, li premiano, li plasmano. E i contenuti che premiano sono quelli che rubano più tempo possibile al nostro cervello, senza lasciargli spazio per riflettere.
Più stimoli, meno attenzione. Più velocità, meno profondità. Più gratificazione immediata, meno capacità di tollerare la noia o l’attesa — due condizioni essenziali per ogni forma di pensiero complesso, creativo o critico.
Il brain rot all’italiana: tra animali assurdi e filastrocche nonsense
In Italia, il fenomeno del brain rot ha assunto una forma tutta nostra, più surreale, più grottesca, perfettamente a suo agio nel nostro gusto per l’assurdo e il trash creativo.
Tra le manifestazioni più evidenti ci sono i cosiddetti “brain rot animals”, animali antropomorfi generati dall’intelligenza artificiale e accompagnati da filastrocche in rima, spesso condita da qualche parolaccia o bestemmia, recitate da voci sintetiche e metalliche. Il tutto condito da un’estetica scarna ma efficace: sfondi piatti, effetti fuoco e fulmini alla buona, musica elettronica di sottofondo.
Tra i protagonisti di questo universo troviamo:
- Tralalero Tralala, uno squalo con scarpe da ginnastica, capostipite di questo zoo psichedelico;
- Bombardiro Crocodilo, coccodrillo bombardiere;
- Tung Tung Tung Sahur, creatura di legno con una mazza, il cui nome riprende il suono del tamburo usato nel Ramadan;
- Trippi Troppi Troppa Trippa, trota antropomorfa con braccia pelose;
- Brr Brr Patapim, un ibrido tra una scimmia nasica e un albero, con piedi umani sproporzionati.
Queste creature si muovono all’interno di una narrazione epico-demenziale fatta di guerre, alleanze e tradimenti, una specie di mitologia contemporanea che ammicca ai Pokémon, ma in versione glitchata e disturbante.

L’origine del fenomeno risale a una semplice filastrocca virale (“Trallallero, trallallà”), rilanciata da creator italiani e poi esplosa grazie all’uso di AI per generare immagini e animazioni. La facilità di produzione tramite app come CapCut e generatori di immagini AI ha fatto il resto.
Generazioni future: stiamo coltivando pensatori o scrollatori compulsivi?
La domanda a questo punto è inevitabile: cosa succede a una generazione che cresce immersa in questo flusso di stimoli infiniti, istantanei, privi di pausa?
Gli studi parlano di una diminuzione della soglia di attenzione, di una crescente difficoltà nel gestire compiti lunghi o impegnativi, di ansia e insoddisfazione cronica. Ma forse non serve nemmeno scomodare la scienza per accorgersene: basta osservare intorno a noi quanta fatica facciamo ormai a restare concentrati su un libro, su un film, su una conversazione senza quella continua necessità di “qualcos’altro”, di un altro stimolo, di un altro scroll.
Il brain rot non è solo un meme, non è solo un trend. È il sintomo di un sistema che ci vuole eternamente distratti.
Resistere al brain rot: una scelta (forse) ancora possibile
Mi rendo conto di quanto sia facile cedere alla tentazione dello scroll infinito, al piacere ipnotico della next clip, della next story, della next distrazione. Me ne rendo conto benissimo, perché succede spesso anche a me.
Ma questo è normale e lo dobbiamo accettare, perché questo meccanismo fa parte di un sistema molto più complesso progettato per portarci esattamente lì: lontani da qualsiasi pensiero profondo, lontani dalla fatica del silenzio, lontani dalla possibilità di stare davvero con noi stessi.
Disconnettersi, rallentare, spegnere: sono diventati atti di resistenza.
Non so se siamo ancora in tempo per cambiare la direzione, ma forse — per chi legge, per chi crea, per chi ogni giorno si chiede che tipo di mondo stiamo contribuendo a costruire — vale la pena almeno provarci.
Perché ogni tanto, invece di un altro video, potremmo scegliere di perderci un po’ e guardare semplicemente il vuoto. E, nel frattempo, pensare.